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Pecorino: quando l'Antitrust definì il costo medio Ismea un valore «solo indicativo»

Giorgio dell'Orefice

L'indicazione emerge dall'indagine conoscitiva IC51c del 2016 sul settore lattiero caseario. L'indice Ismea è solo uno degli elementi da valutare e non può essere un benchmark per il comparto

L'Autorità antitrust ha aperto nei giorni scorsi un'indagine sulle imprese di trasformazione del Pecorino romano sulla scorta delle recenti polemiche sul prezzo del latte di pecora in Sardegna. A questo proposito va però ricordato che la medesima Autorità Antitrust aveva già effettuato, e non in tempi remoti ma appena nel 2016, un'indagine conoscitiva sul settore lattiero caseario a seguito di una segnalazione della Coldiretti. L'indagine che aveva riguardato proprio la dinamica della formazione dei prezzi nella filiera, in quel caso del latte vaccino, e il rapporto tra i prezzi e i costi di produzione. L'iniziativa era stata giustificata dalla necessità di individuare eventuali violazioni dell'articolo 62 della legge 27/2012 che regola le relazioni commerciali all'interno della filiera agroalimentare e si era conclusa con alcune indicazioni da parte dell'Autorità riguardo proprio ai costi di produzione e all'individuazione, mediante Ismea, di un costo medio, che forse potrebbe tornare utile ricordare riguardo alla vicenda dei pastori sardi.
«I costi produttivi – si legge nell'indagine conoscitiva IC51 del 2016 redatta dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato – non variano soltanto in funzione della dimensione delle imprese, diminuendo fortemente al crescere dei parametri dimensionali, ma anche in funzione di diversi altri parametri quali: livello di meccanizzazione, incidenza della manodopera familiare, investimenti effettuati per incrementare la propria produzione, collocazione geografica delle imprese, disponibilità di superfici per l'autoproduzione del foraggio. Ciò rende il costo medio nazionale, quand'anche se ne riesca a produrre una stima attendibile, un valore dal contenuto informativo assai limitato, potendosi teoricamente registrare costi distinti per ciascuna delle categorie di imprese esistenti».

Una estrema variabilità dettata anche dal fatto che le imprese del settore, spesso a conduzione familiare, non redigono bilanci il che rende la stima dei costi ancora più complessa e aleatoria.

L'indagine dell'Autorità Antitrust del 2016 come ricordato aveva riguardato in particolare l'applicazione dell'articolo 62 della legge 27/2012. «Ai fini dell'applicazione delle citate disposizioni (ovvero dell'articolo 62) – si legge ancora nell'indagine Antitrust – il decreto legge n. 51/2015 (che aveva dettato misure urgenti per il settore lattiero caseario, ndr) dispone che Ismea calcoli mensilmente i costi medi, tenuto anche conto della collocazione geografica dell'allevamento e della destinazione finale del latte crudo».

Ma soprattutto e sempre riguardo ai costi medi rilevati da Ismea più avanti la stessa Agcm aggiunge. «In merito all'interpretazione della normativa sopra richiamata, occorre preliminarmente osservare che l'art. 4, comma 2, lett. c), del decreto applicativo dell'art. 62 non può essere interpretato dall'Autorità come un divieto assoluto e generalizzato per gli acquirenti di latte ad applicare un prezzo di acquisto inferiore ai costi medi di produzione del latte calcolati dall'Ismea: infatti, assumere un qualsiasi valore del costo medio di produzione come un benchmark per la fissazione di tutti i prezzi corrisposti ai produttori di latte crudo equivarrebbe ad effettuare un intervento di tipo ‘regolatorio' a tutela dell'intero settore, piuttosto che a tutela di singoli contraenti deboli, fornendo indicazioni al mercato sul prezzo "equo" da applicare».
«Pertanto – secondo l'Acgm - i costi medi calcolati dall'Ismea possono essere letti come uno degli elementi che l'Autorità ha a disposizione per valutare se, nell'ambito di specifiche relazioni contrattuali caratterizzate da significativo squilibrio di forza commerciale, l'impresa industriale abbia effettivamente imposto, in contrasto con i principi di buona fede e di correttezza, un prezzo di acquisto ingiustificatamente gravoso, valutando l'eventuale gravosità anche sulla base del livello e dell'andamento dei costi produttivi delle imprese attive sul mercato».

Ad ogni modo «le elaborazioni Ismea possono senz'altro essere di ausilio alla valutazione, ma esse vanno interpretate ed utilizzate unitamente ad altri elementi informativi sulle caratteristiche dei mercati».

Il tutto senza dimenticare che – come emerso dalla stessa indagine del 2016 – nel settore lattiero caseario è emersa una grande variabilità dei costi di produzione aziendali. In questa ottica «Risulterebbe del tutto improprio, ad esempio, attribuire a un'impresa che produce formaggi di tipo generico, in aperta concorrenza con i formaggi esteri, l'onere di coprire i costi di produzione di allevatori collocati in zone di montagna del Trentino che destinano il proprio latte alla produzione tipiche della zona».


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