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Innovazione varietale, nei tribunali esplodono i casi di contenziosi vegetali

Carolina Cordero di Vonzo*

L'evoluzione del modello di business nell'ortofrutta appare simile a quella di altri settori come moda e cosmetica, che ha portato alla disponibilità del prodotto ovunque

Un paio d'anni fa la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha emanato (caso raro) una sentenza in materia di protezione delle nuove varietà vegetali. Questo caso (Nadorcott, per chi ricordasse), ormai considerato una pietra miliare per gli addetti ai lavori, in Italia non è rimasto isolato.

Nell'ultimo paio d'anni, infatti, i giudici italiani sono stati investiti da una serie di contenziosi "vegetali" che coinvolgono breeders e coltivatori, consorzi e autorità di tutela in ogni campo: dalle rose alla vite, dal pomodoro al frumento, passando per vari tipi di foraggio, mele, kiwi, grano, albicocche e ovviamente uva, rigorosamente senza semi.

E non si tratta solo del tribunale di Bari, teatro di scontro per gli acini seedless , ma anche di quelli di Teramo, Bologna, Genova, Venezia e persino Milano, zona certamente meno vocata all'agricoltura, fino a giungere in Cassazione.

Senza contare tutto quello che non arriva nelle aule giudiziarie.Si tratta per lo più di controversie relative alla propagazione e commercializzazione di piante, o alla produzione e vendita di semi, che si pretendono illecite. Tutte, ad ogni modo, hanno ad oggetto l'asserita violazione dei diritti del titolare o dei relativi contratti, e non lesinano interventi da parte di Guardia di Finanza, ICQRF (il braccio operativo del ministero dell'Agricoltura) e altre forze dell'ordine.

Le conseguenze non sono solo civili, con condanne al ritiro dei prodotti dal mercato e distruzione degli stessi, al risarcimento del danno e alla pubblicazione delle decisioni su quotidiani nazionali, ma anche penali.

Queste condotte sono anche state qualificate dalle Corti come veri e propri reati, punibili con reclusione, multe e misure risarcitorie.Alcuni casi, peraltro, si risolvono in un nulla di fatto a causa delle difficoltà pratiche legate alla conservazione delle prove (che, essendo materiale vegetale, deperiscono rapidamente nelle mani di esperti di diritto senza pollice verde), o alla dimostrazione dell'identità tra il campione sospetto e quello sottoposto ad esame genetico (come si distingue un grappolo da un altro?), oppure, tout court, per errori procedurali o di interpretazione della norma sostanziale, con alterne fortune tra titolari dei diritti e presunti (o accertati) utilizzatori illeciti.

Queste difficoltà sono in parte riconducibili ai dolori di crescita di un settore relativamente giovane, la cui normativa europea non raggiunge i trent'anni di età e per lungo tempo è stata poco considerata (nel 2021 sono state depositate quasi duecentomila domande di marchio comunitario, mentre quelle per le varietà vegetali non raggiungono le tremilacinquecento).

Esistono quindi pochi precedenti, e anzi alcuni aspetti non sono mai stati esaminati da un giudice e nemmeno da un avvocato. Che questo permeare del contesto legale in quello agricolo sia un bene non è per forza detto, ma è certamente una realtà. Stiamo assistendo ad un vero e proprio cambiamento del modello di business generale, iniziato a piccoli passi già da qualche decennio, ma che sta avendo un'accelerazione negli ultimi anni.

Una vera e propria gentrificazione del settore, soprattutto nel mondo dell'ortofrutta. L'evoluzione appare simile a quella di altri settori come moda e cosmetica, che ha portato alla disponibilità del prodotto in ogni centro città, con la sicurezza di una qualità uniforme. Staremo a vedere se il modello è replicabile anche per rose, grano e uva da tavola.

*avvocato studio Baker McKenzie


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